Come si combinano lo scoppio di un’imprevedibile pandemia e un’esperienza di volontariato europeo? L’ho chiesto a Giulio, volontario pordenonese di Associazione JOINT, impegnato in un periodo di volontariato a Leuven, in Belgio.
Bentornat* a “Volontariato europeo ai tempi del #Covid-19”, rubrica che si occupa di fare luce sulle storie dei volontari italiani coinvolti in progetti di volontariato europeo all’estero allo scoppio dell’emergenza sanitaria coronavirus.
Nello scorso episodio la storia di Roberta, volontaria bergamasca di Associazione JOINT, impegnata in un’esperienza di volontariato europeo in un asilo nel bosco a Jena, in Germania.
Se non hai letto l’articolo e sei curios* di sapere cosa mi ha raccontato, clicca qui e goditi la lettura.
Questo articolo è invece dedicato a Giulio, volontario di 25 anni di Pordenone.
Il giovane, grazie ad Associazione JOINT, partecipa ad un progetto di volontariato europeo a Leuven, in Belgio, come addetto alla comunicazione per Rikolto, organizzazione attiva a livello locale come guida per le cooperative agricole nel processo di professionalizzazione e che aiuta gli enti agricoli territoriali ad ottenere l’accesso ai finanziamenti pubblici.
Giulio adora viaggiare e fatica a stare nello stesso posto per troppo tempo; la sua passione per la mobilità lo porta nel 2011 a prendere parte ad un progetto con Intercultura in Cile e, durante gli studi universitari, nel 2014 a svolgere un Erasmus a Malaga; grazie a queste esperienze riesce a saggiare la sua sete di scoperta e comincia a dare una dimensione internazionale alla sua vita.
Poi, dopo un master di primo livello in relazioni internazionali tra Europa e America Latina ottenuto a Buenos Aires, Giulio si mette alla ricerca di un progetto di volontariato europeo, che possa combinare la sua passione per il mondo della comunicazione e il suo interesse per il settore agro-alimentare; la prospettiva di rispolverare la sua conoscenza della lingua francese è, poi, un ulteriore elemento che orienta Giulio nella selezione dei progetti.
Il progetto di Rikolto fa al caso suo, si candida, viene selezionato e a gennaio 2020 parte.
Le prime settimane del progetto scorrono pacifiche; Giulio familiarizza con il lavoro all’interno dell’organizzazione e riesce ad ambientarsi nella famiglia che lo ospita.
Ma durante l’on-arrival training, momento di formazione riservato a tutti i volontari europei all’inizio dell’esperienza di volontariato, qualcosa cambia: dall’Italia le notizie relative alla repentina diffusione dell’emergenza sanitaria coronavirus iniziano a giungere impietose.
“Al training ero insieme ad altri 6 italiani e abbiamo iniziato a preoccuparci per la situazione. Tutti nutrivamo la speranza che le notizie sui contagi diventassero più incoraggianti, ma i dati erano, al contrario, sempre più drammatici giorno dopo giorno. Io avevo in mano un biglietto per tornare per qualche giorno a casa dalla mia fidanzata che non vedevo da luglio 2019, ma iniziavo a vedere sempre più sfumare la possibilità di fare rientro in Italia. In Belgio, invece, la situazione non era particolarmente sentita, anzi. I bar erano affollati e nessuno appariva turbato. Mi è sembrato di vivere in due mondi contemporaneamente. Da una parte l’Italia che sembrava un covo di peste nera, dall’altra il Belgio in cui nessuna misura veniva realmente presa. Fisicamente ero in Belgio, ma la mia testa era in Italia.”
Chiedo allora a Giulio quali fossero i suoi timori di fronte a tutta questa situazione.
“Il primo pensiero è andato alle mie nonne anziane e poi a tutti i miei familiari. E poi ho pensato a tutte le conseguenze economiche che questa emergenza porterà con sé. Quante piccole aziende sopravviveranno? Non sono tanto ottimista a riguardo e, anzi, temo che assisteremo ad un divario ancora maggiore tra grandi e piccole imprese.”
E la famiglia che lo ospita come reagisce alle notizie sull’Italia?
“Diciamo che all’inizio loro cercavano di convincermi che rimanere in Belgio fosse la scelta migliore; anche alla luce delle statistiche sui contagi in Italia che stavano diventando davvero preoccupanti. Non aveva senso per loro rischiare. Io, invece, cercavo di trovare motivi validi che rendessero ragionevole la mia voglia di tornare a casa in Italia. Ma sono stati abbastanza chiari: se avessi fatto ritorno in Italia e avessi poi desiderato tornare a Leuven, mi sarei dovuto trovare un’altra famiglia che mi ospitasse. Io comprendevo la loro posizione. Poi avevano sviluppato una sorta di ossessione per il lavaggio delle mani. Controllavano costantemente che mi lavassi le mani spesso e mandavano uno dei due figli ad assicurarsi che io lo facessi. Ovviamente era un po’ stressante sapere che fossero così attenti alla mia igiene personale solo perché ero italiano, ma comunque ho sempre preso questa situazione sul ridere. Non mi sono mai sentito realmente discriminato, neanche a lavoro, per fortuna.”
Giulio, in un primo momento, decide di restare a Leuven e trascorre quasi un mese in casa con la famiglia che lo ospita, con l’accesa speranza di poter tornare presto alla normalità.
“I responsabili del mio progetto mi hanno dato la possibilità di lavorare da casa, dato che la mia attività di creazione di contenuti web è semplice da svolgere anche da remoto. Io in questo periodo ho cercato di lavorare il più possibile per tenere la testa impegnata. In Belgio, fortunatamente, non c’è mai stato un vero e proprio lockdown e, sebbene le attività commerciali fossero chiuse, alle persone era consentito muoversi entro certi limiti di sicurezza. Io ho fatto grandi giri in bicicletta, approfittando dell’ambientazione bucolica dei dintorni della casa in cui vivevo, per evadere un po’ dalla monotonia. La più grande sfida per me è stata la convivenza forzata. Io per 5 anni ero abituato a vivere da solo o con persone della mia età; ammetto che convivere tutto il giorno con ritmi non tuoi, in una famiglia che non è la tua – anche se mi sono sempre trovato molto bene – e con bambini piccoli è stato impegnativo.”
Purtroppo, anche dopo questo periodo passato con la famiglia ospitante, l’emergenza non rientra e la possibilità di tornare in ufficio entro la fine del progetto sfuma definitivamente.
Giulio decide, allora, di tornare in Italia.
“Se mi avessero detto che avrei dovuto rinunciare al progetto qualora fossi tornato in Italia, sarei rimasto in Belgio; ma, dato che i miei responsabili mi hanno garantito la continuità del progetto tramite il lavoro da remoto, decido di tornare in Italia. Riesco ad ottenere un certificato di perdita del domicilio da parte della famiglia che mi ospitava e grazie ad esso posso tornare a casa col volo Bruxelles-Roma, che Alitalia garantiva ogni giorno. All’arrivo in aeroporto a Roma mi si è presentato un panorama indescrivibile; era un deserto ed era pieno di controlli e moduli da compilare. Per non parlare del fatto che ho preso un taxi e la macchina su cui ero a bordo io era l’unica sul Grande Raccordo Anulare. Mai visto. Sembrava l’apocalisse. Ora sono a Roma, a casa della mia fidanzata, e mi sono sottoposto ad un periodo di quarantena volontaria di 14 giorni. È stato un periodo non semplice in cui non ho avuto contatti diretti con lei; avevo accesso solo alla mia stanza e al terrazzo. Ho dovuto chiamare la ASL comunicando i miei dati e dichiarando di essere rientrato in Italia; per due volte al giorno, durante l’isolamento, mi chiamavano per sapere se avevo sintomi e per conoscere la mia temperatura corporea.”
Per concludere domando a Giulio che riflessioni ha potuto maturare grazie a questa esperienza; lui enfatizza l’urgenza di un passaggio ad una filiera alimentare corta, ovvero con minori intermediazioni tra produttore e consumatore.
“Una riforma della filiera alimentare verso un paradigma di filiera più snello avrebbe altri benefici oltre ad una maggiore tracciabilità dei prodotti e al mantenimento della ricchezza a livello locale; in periodi di chiusura frontiere come quello che ci ha visti protagonisti di recente, una filiera più corta consentirebbe di alleggerire la dipendenza da altri mercati per l’approvvigionamento di determinati beni e ridurrebbe i livelli di inquinamento del trasporto; parlo principalmente per i beni che vengono prodotti solo in determinati posti e vengono poi esportati in tutto il mondo.”
La chiacchierata con Giulio volge al termine.
Oltre alle sue vicissitudini legate al coronavirus, quello che mi ha colpito del racconto sono state la constatazione del grande aiuto che lo smartworking ha fornito a Giulio durante il suo progetto di volontariato europeo e le sue riflessioni sulle tematiche alimentari, che spesso vengono tralasciate, ma che risultano essere cruciali, specialmente in periodi di emergenza, affinché possiamo diventare cittadini più consapevoli e responsabili.
E tu, quali riflessioni hai potuto maturare durante questo periodo?
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